martedì 8 gennaio 2008

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO


Con Eastern Promises, David Cronemberg continua lo studio sulla genesi della violenza nella società e sui rapporti di potere fra gli uomini, un’indagine cominciata con A History of Violence. Ma, se in quest’ultimo film, il tema veniva trattato in maniera astratta, quasi come fosse un’allegoria, una parabola sulla nascita della violenza, in La promessa dell’assassino la questione viene contestualizzata ed esemplificata attraverso le vicende di una potente famiglia della mafia russa. La storia è ambientata a Londra ma in realtà si svolge all’interno del mondo degli immigrati russi, visti da due diverse angolazioni. Da una parte, infatti, abbiamo la famiglia modesta e onesta, personificata dall’infermiera Naomi Watts, dall’altra l’oscuro mondo della mafia russa, popolato di personaggi tanto enigmatici ed inquietanti, come l’autista factotum Viggo Mortensen, quanto violenti, fragili e ridicoli, come il figlio del boss Vincent Cassel.
Ed è proprio nel momento in cui questi due mondi si incontrano che esplodono le dinamiche di predominio e si liberano le varie identità dei personaggi, che si mescolano per poi rivelarsi soltanto nel finale. Cronemberg gioca con le personalità multiple, così come ha sempre amato fare sin dai tempi di Inseparabili, ma questa volta inserisce nella storia un pathos sociale a lui poco noto: il riscatto e la vendetta degli oppressi, delle vittime della potente organizzazione criminale, in particolare delle donne illuse da vane promesse di notorietà e poi rese schiave.
Perciò Naomi Watts, lasciatasi inizialmente abbindolare dalle promesse del boss, promette a sua volta di vendicare la giovane vittima nonché madre del bimbo abbandonato, vittima nuovamente di una promessa non mantenuta. Tutto ruota intorno ad una voglia di vendetta e di riscatto nei confronti delle ingiustizie subite, ed al centro di questa trama c’è il neonato, la vita più indifesa che viene messa a repentaglio come ultimo baluardo di speranza in un mondo di corruzione. Ma quanto più fragile è questa vita quanto più forte sarà la sua capacità di vincere sul male; alla fine infatti sarà proprio la giovane infermiera a ritrovare la maternità perduta sollevando al cielo la creatura finalmente liberata dal giogo delle vendette trasversali. Ma è bene ricordare che sempre di un film di Cronemberg si tratta, dunque niente finali edulcorati alla Hollywood peggiore: la violenza è sempre in agguato e aspetta solo di trovare un nuovo padre capace di generarla. Sta tutto in questo la potente figura di Viggo Mortensen (eccezionalmente implacabile e glaciale), l’autista prima sbeffeggiato poi apparentemente rivalutato e cooptato tra i membri puri della casta mafiosa, per poi essere a sua volta rivenduto come una merce di scambio. Sarà proprio la violenza più estrema esemplificata nella superba scena dentro la sauna, a ricollocare tutto al proprio posto: i più forti alla fine trionferanno e, se necessario, non esiteranno a prendere il posto dei padri malvagi per continuare nell’opera di sopraffazione degli uni sugli altri di cui ogni società che si rispetti ha bisogno. Non c’è spazio per i deboli, per il Vincent Cassel straordinariamente in parte, il figlio del boss violento ma inconcludente, spaccone ma straordinariamente fragile, che si dimena e si contorce in tutta la sua ottusità ingenua, preferendo una grassa risata all’infanticidio più becero.
Insomma: un gran film, potente ed emozionante, gran summa del cinema di Cronemberg, tra psicanalisi, identità multiple, visionarie lotte nel sangue, ma con un qualcosa in più, l’umanità, la speranza, la potenza della maternità e del riscatto sociale femminile. Un cast in stato di grazia come raramente si ha il piacere di vedere, un ritmo implacabile, una poesia finale.

lunedì 7 gennaio 2008

PARANOID PARK


Paranoid Park

Un ragazzo di Portland amante dello skate commette un grave reato, proprio con la sua tavola: una trama semplice, ma con un significato complesso. Dalla storia, dalle parole, dalle immagini, dai protagonisti e dalle ambientazioni emerge un concetto, quello della sospensione.
In questo suo ultimo film premiato dalla giuria a Cannes il regista Gus Van Sant cerca di dare volto a ciò che sembra essere la cornice dei nostri tempi. Una cornice dai bordi sfumati, quasi del tutto evaporati. Lo skate e l’adolescenza sono i simboli della sospensione. La tavola è, infatti, qualcosa che interrompe il contatto con il suolo e allo stesso tempo annulla l’attrito, grazie alle rotelle si può imparare a scivolare su ogni superficie. L’adolescenza, inoltre, rappresenta la fase più incerta della vita, un periodo pieno di ansie, dove tante aspirazione sono frustrate da uno stato che vede l’individuo ancora impotente.
Il regista in un lungometraggio privo di grandi attori e di location spettacolari, insomma in una pellicola modesta, riesce a trasmettere il senso di vuoto e smarrimento incosciente che colpisce la civiltà occidentale.